Azione Francescana

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“Compio un cammino proprio perché ne ho bisogno”. Fra Francesco Maddalena racconta il suo cammino di Santiago.

“Anche se avessi percorso tutte le strade, montagne e valli, dall’Oriente all’Occidente, ma non avessi scoperto la libertà di essere me stesso, non sarei arrivato da nessuna parte.”

Così inizia una preghiera composta da un frate francescano e donata ai pellegrini presso il santuario di O Cebreiro, villaggio incastonato a milletrecento metri di altitudine tra le catene montuose che danno inizio al tratto galiziano del Cammino di Santiago. Una preghiera semplice e vera, che coglie in profondità la realtà di quell’esperienza quasi millenaria che è il Cammino. Ogni pellegrino, si sa, porta in sé il desiderio della meta, ma è il percorso, i passi compiuti lungo il cammino, le cadute, le mani tese ad aiutare, che plasmano il cuore che poi arriverà a toccare la desiderata meta.

Un po’ sulla falsariga del motto fatto proprio da Papa Francesco, per cui la realtà è superiore all’idea, potremmo allo stesso modo dire che è il cammino a qualificare la meta. Anzi, compio un cammino proprio perché ne ho bisogno, perché non posso arrivare alla meta così come sono, ma ho bisogno di aprire il cuore a ciò che il buon Dio vuole dire alla mia vita. Camminare non serve a guadagnare un trofeo, ma a guadagnare il coraggio di incontrare sé stessi nella verità. Potranno così essere duecento o settecento i chilometri fatti a piedi, un po’ come recita il verso della preghiera, ma se non mi porteranno ad incontrare prima di tutto me stesso nella mia autenticità, potrebbero risultare vani.

D’altra parte, la prima cosa che si scopre intraprendendo un pellegrinaggio come questo è che esso rappresenta la metafora più fedele dell’intera vita. L’assolata aridità, la pesante solitudine, la gioia della compagnia, la fatica delle salite altro non sono che i momenti nei quali, man mano, si determina il nostro modo di vivere. Ho fatto allora questa esperienza e l’ho fatta da frate minore di ventitré anni.

Sugli ultimi duecento chilometri del cammino francese, insieme a fra Vincenzo e fra Giuseppe, ho avuto l’opportunità di mettermi in viaggio verso la tomba dell’apostolo Giacomo e, più inconsapevolmente, verso me stesso. Proverò allora a tratteggiare quei giorni di cammino vissuti insieme attraverso qualche immagine significativa per la mia esperienza e per la mia vocazione.

La prima è quella dell’incontro con una donna, di età molto più avanzata della mia, che sulle spalle aveva tutti i chilometri che si fanno partendo da Saint-Jean-Pied-de-Port, villaggio dei Pirenei francesi da cui parte il percorso. Ci siamo trovati, così, a camminare fianco a fianco e a raccontarci l’esperienza che stavamo facendo, ma in special modo ciò che ci aveva portato a camminare verso Santiago. Lei mi raccontava della sua relazione con Dio, resa difficile – se non troncata – dal turbamento della sofferenza vissuto attraverso la malattia della madre. Questo intercettava anche la mia sensibilità, atterrito anch’io dallo scandalo del dolore innocente, e apriva una questione nella quale, con indosso il saio, correvo il rischio di sentirmi chiamato a fare da avvocato difensore a Dio.

Invece, ecco la bellezza. Nella mia mania di poter spiegare tutto, di ricondurre la complessità dell’esistenza alla linearità del pensiero – frutto più della paura che della conoscenza – ho avuto la grazia di mettermi al fianco di questa sorella e non più in alto, di poterla ascoltare, talvolta tacendo, e di non insegnarle nulla. È anche questa un’esperienza del sacro, come scrive Franco Arminio: “Sacro non è raccontare ciò che sai, ma quello che ti commuove e non sai perché”. Infatti lei, continuando, mi raccontava come lungo il cammino avesse ritrovato il gusto della preghiera, il dono di poter tornare a ringraziare spontaneamente Dio, incontrandolo nelle sue vestigia lungo il cammino. Tutto senza alte speculazioni di carattere teologico, senza risposte da manuale, ma nella semplice apertura del cuore. Qui, senza volerlo, mi sono ritrovato a vivere davvero da frate minore. Riaffiorano nella mia mente le parole di San Francesco, quando diceva che i suoi frati avrebbero portato frutto nella Chiesa di Dio se si fossero mantenuti nello stato della loro vocazione, “per seguire le orme dell’umiltà di Cristo”. (cfr. 2Cel 148; FF 732) Ecco la benedizione di quest’incontro, essermi fatto semplicemente fratello.

Il secondo ricordo che porto nel cuore e che voglio lasciare qui impresso è l’esperienza che prima ho fatto del vuoto e poi del desiderio. La tappa quel giorno era piuttosto estenuante, eravamo ormai al primo pomeriggio e stavamo camminando da prima che sorgesse il sole. All’arrivo avremmo cercato riposo presso un grande monastero benedettino ed io, affascinato dalla vita monastica e dalla gloriosa storia dell’ordine benedettino, vedevo quella destinazione quasi come un premio alle mie fatiche. Tuttavia, anche lì mi attendeva una bella lezione.

Il monastero era gigantesco, con due chiostri, una biblioteca, una grande ed alta chiesa dotata di uno degli organi a canne più potenti di Spagna. Le mie aspettative erano altissime. Al momento della celebrazione eucaristica, però, tutto è andato in fumo. In venti minuti i monaci riuscirono a macinare sia i Vespri che la Messa, recitando in fretta e furia i salmi e facendo partire una registrazione del secondo movimento della Suite orchestrale n. 3 di Bach (per i non addetti ai lavori, la sigla di Quark) al momento della distribuzione della Eucaristia.

Un momento grottesco per me, che in quella muta grandezza ereditata dal passato ora vedevo solo un immenso vuoto, una fuga dalla propria vocazione alla bellezza, alla contemplazione del mistero. Così ho imparato che le forme e le strutture non posso trasmettere valori, tantomeno custodirli se nel cuore non divampa l’ardore per l’ideale sul quale la mia vita si è imperniata. Sarà per questo che Francesco scrisse una Regula di soli dodici essenziali capitoli, rinunciando ad adottare i settantatré della benedettina.

Ho incontrato, invece, la scintilla del desiderio in un sacerdote comboniano, durante una messa per i pellegrini qualche tappa più avanti. La chiesa era gremita di gente di ogni lingua e di ogni nazione, la chiesa semplicissima. Lui riuscì a spezzare una parola per ognuno sul Vangelo che si celebrava, facendo vivere a tutti una celebrazione con il sapore della festa. La chiesa era piena di giovani, si pregava e si cantava. Così ho desiderato che fosse anche la mia vita, la mia missione: essere semplice per poter donare a tutti qualcosa. Semplicità, che per Francesco era sapienza.

Voglio dirti così, caro lettore, che per questi ed altri motivi il Cammino di Santiago e il mio arrivo sulla tomba dell’Apostolo Giacomo non hanno segnato in verità nessun traguardo, ma un motivo ulteriore per avere uno sguardo nuovo, più profondo e sincero sulla mia vita; un nuovo inizio, un’opportunità che non vale la pena sprecare.

“Compio un cammino proprio perché ne ho bisogno”. Fra Francesco Maddalena racconta il suo cammino di Santiago.

“Anche se avessi percorso tutte le strade, montagne e valli, dall’Oriente all’Occidente, ma non avessi scoperto la libertà di essere me stesso, non sarei arrivato da nessuna parte.”

Così inizia una preghiera composta da un frate francescano e donata ai pellegrini presso il santuario di O Cebreiro, villaggio incastonato a milletrecento metri di altitudine tra le catene montuose che danno inizio al tratto galiziano del Cammino di Santiago. Una preghiera semplice e vera, che coglie in profondità la realtà di quell’esperienza quasi millenaria che è il Cammino. Ogni pellegrino, si sa, porta in sé il desiderio della meta, ma è il percorso, i passi compiuti lungo il cammino, le cadute, le mani tese ad aiutare, che plasmano il cuore che poi arriverà a toccare la desiderata meta.

Un po’ sulla falsariga del motto fatto proprio da Papa Francesco, per cui la realtà è superiore all’idea, potremmo allo stesso modo dire che è il cammino a qualificare la meta. Anzi, compio un cammino proprio perché ne ho bisogno, perché non posso arrivare alla meta così come sono, ma ho bisogno di aprire il cuore a ciò che il buon Dio vuole dire alla mia vita. Camminare non serve a guadagnare un trofeo, ma a guadagnare il coraggio di incontrare sé stessi nella verità. Potranno così essere duecento o settecento i chilometri fatti a piedi, un po’ come recita il verso della preghiera, ma se non mi porteranno ad incontrare prima di tutto me stesso nella mia autenticità, potrebbero risultare vani.

D’altra parte, la prima cosa che si scopre intraprendendo un pellegrinaggio come questo è che esso rappresenta la metafora più fedele dell’intera vita. L’assolata aridità, la pesante solitudine, la gioia della compagnia, la fatica delle salite altro non sono che i momenti nei quali, man mano, si determina il nostro modo di vivere. Ho fatto allora questa esperienza e l’ho fatta da frate minore di ventitré anni.

Sugli ultimi duecento chilometri del cammino francese, insieme a fra Vincenzo e fra Giuseppe, ho avuto l’opportunità di mettermi in viaggio verso la tomba dell’apostolo Giacomo e, più inconsapevolmente, verso me stesso. Proverò allora a tratteggiare quei giorni di cammino vissuti insieme attraverso qualche immagine significativa per la mia esperienza e per la mia vocazione.

La prima è quella dell’incontro con una donna, di età molto più avanzata della mia, che sulle spalle aveva tutti i chilometri che si fanno partendo da Saint-Jean-Pied-de-Port, villaggio dei Pirenei francesi da cui parte il percorso. Ci siamo trovati, così, a camminare fianco a fianco e a raccontarci l’esperienza che stavamo facendo, ma in special modo ciò che ci aveva portato a camminare verso Santiago. Lei mi raccontava della sua relazione con Dio, resa difficile – se non troncata – dal turbamento della sofferenza vissuto attraverso la malattia della madre. Questo intercettava anche la mia sensibilità, atterrito anch’io dallo scandalo del dolore innocente, e apriva una questione nella quale, con indosso il saio, correvo il rischio di sentirmi chiamato a fare da avvocato difensore a Dio.

Invece, ecco la bellezza. Nella mia mania di poter spiegare tutto, di ricondurre la complessità dell’esistenza alla linearità del pensiero – frutto più della paura che della conoscenza – ho avuto la grazia di mettermi al fianco di questa sorella e non più in alto, di poterla ascoltare, talvolta tacendo, e di non insegnarle nulla. È anche questa un’esperienza del sacro, come scrive Franco Arminio: “Sacro non è raccontare ciò che sai, ma quello che ti commuove e non sai perché”. Infatti lei, continuando, mi raccontava come lungo il cammino avesse ritrovato il gusto della preghiera, il dono di poter tornare a ringraziare spontaneamente Dio, incontrandolo nelle sue vestigia lungo il cammino. Tutto senza alte speculazioni di carattere teologico, senza risposte da manuale, ma nella semplice apertura del cuore. Qui, senza volerlo, mi sono ritrovato a vivere davvero da frate minore. Riaffiorano nella mia mente le parole di San Francesco, quando diceva che i suoi frati avrebbero portato frutto nella Chiesa di Dio se si fossero mantenuti nello stato della loro vocazione, “per seguire le orme dell’umiltà di Cristo”. (cfr. 2Cel 148; FF 732) Ecco la benedizione di quest’incontro, essermi fatto semplicemente fratello.

Il secondo ricordo che porto nel cuore e che voglio lasciare qui impresso è l’esperienza che prima ho fatto del vuoto e poi del desiderio. La tappa quel giorno era piuttosto estenuante, eravamo ormai al primo pomeriggio e stavamo camminando da prima che sorgesse il sole. All’arrivo avremmo cercato riposo presso un grande monastero benedettino ed io, affascinato dalla vita monastica e dalla gloriosa storia dell’ordine benedettino, vedevo quella destinazione quasi come un premio alle mie fatiche. Tuttavia, anche lì mi attendeva una bella lezione.

Il monastero era gigantesco, con due chiostri, una biblioteca, una grande ed alta chiesa dotata di uno degli organi a canne più potenti di Spagna. Le mie aspettative erano altissime. Al momento della celebrazione eucaristica, però, tutto è andato in fumo. In venti minuti i monaci riuscirono a macinare sia i Vespri che la Messa, recitando in fretta e furia i salmi e facendo partire una registrazione del secondo movimento della Suite orchestrale n. 3 di Bach (per i non addetti ai lavori, la sigla di Quark) al momento della distribuzione della Eucaristia.

Un momento grottesco per me, che in quella muta grandezza ereditata dal passato ora vedevo solo un immenso vuoto, una fuga dalla propria vocazione alla bellezza, alla contemplazione del mistero. Così ho imparato che le forme e le strutture non posso trasmettere valori, tantomeno custodirli se nel cuore non divampa l’ardore per l’ideale sul quale la mia vita si è imperniata. Sarà per questo che Francesco scrisse una Regula di soli dodici essenziali capitoli, rinunciando ad adottare i settantatré della benedettina.

Ho incontrato, invece, la scintilla del desiderio in un sacerdote comboniano, durante una messa per i pellegrini qualche tappa più avanti. La chiesa era gremita di gente di ogni lingua e di ogni nazione, la chiesa semplicissima. Lui riuscì a spezzare una parola per ognuno sul Vangelo che si celebrava, facendo vivere a tutti una celebrazione con il sapore della festa. La chiesa era piena di giovani, si pregava e si cantava. Così ho desiderato che fosse anche la mia vita, la mia missione: essere semplice per poter donare a tutti qualcosa. Semplicità, che per Francesco era sapienza.

Voglio dirti così, caro lettore, che per questi ed altri motivi il Cammino di Santiago e il mio arrivo sulla tomba dell’Apostolo Giacomo non hanno segnato in verità nessun traguardo, ma un motivo ulteriore per avere uno sguardo nuovo, più profondo e sincero sulla mia vita; un nuovo inizio, un’opportunità che non vale la pena sprecare.

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