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La normalità dell’imperfetto

“Molto tardi si impara che la debolezza non è un difetto, ma una qualità della persona. Una qualità rischiosa che non richiede indulgenza o severità ma riconoscenza.” Luigi Pintor

Ogni anno il corso di “Pedagogia inclusiva” (e da quest anno anche “Pedagogia generale” e “Pedagogia della famiglia”), della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi «Jurai Dobrilia» Pola (Croazia), inizia con questa citazione. Questa “massima” sull’importanza di accogliere le proprie fragilità, vuol tracciare la rotta, e in qualche maniera lascia presagire anche la meta da raggiungere di questo insegnamento.

Infatti il percorso di studi tocca i temi riguardanti le tappe (e soprattutto i nodi critici di queste tappe), del ciclo evolutivo dei bambini durante i primi anni di vita e durante tempo della scuola primaria; si vuole inoltre riflettere su come la scuola e tutto il mondo educativo siano chiamati ad accogliere tutte quelle situazioni che una volta si stigmatizzavano banalmente con: “è svogliato”; “è incapace”; “non è portato”.

Il percorso di studi approfondisce anche gli aspetti legati al mondo delle disabilità fisiche o psichiche che siano; e si considerano inoltre, i disturbi dell’attenzione e del comportamento dei bambini, che sono causa di apprensione per molte famiglie. Pertanto i futuri educatori necessitano sempre di più di una sorta di mappa di orientamento per poter essere accanto ai bambini e alle loro famiglie.

Chiaramente siamo consapevoli che un docente, o un educatore non può essere totalmente responsabile di tutto il lavoro di accompagnamento e di sostegno ai ragazzi e alle loro famiglie, pretendendo di risolvere ogni difficoltà: è sempre un gioco di squadra, un faticoso ma proficuo lavoro di rete con tutte le istituzioni: famiglia, sanità, scuola, istituzioni religiose…

Per tentare di raccontare qualcosa su questa tematica dobbiamo innanzitutto dire che la disabilità non esiste in termini puramente oggettivi, ma va sempre letta in quell’approccio che le scienze umane chiamano “multidimensionale”: chi è il disabile, quanti anni ha, in che tipo di famiglia e di società vive, in che luogo vive, quali sono le sue disponibilità economiche…queste sono le domande che l’approccio multidimensionale porta con sé, e a cui dobbiamo far fronte.

E’ diversa, ad esempio, l’integrazione di una persona disabile in un contesto rurale o in un contesto cittadino, è diversa la qualità della vita a seconda dei diversi significati che la cultura di riferimento dà alla condizione disabile, se la medicalizza, la santifica o la demonizza, è infine diversa l’esistenza secondo i mezzi economici e culturali che si hanno a disposizione. A partire dallo stesso grado di disabilità è possibile che si abbiano quindi gradi di handicap diversi.

Un altro aspetto, non secondario, nello studiare la disabilità nel suo aspetto soggettivo è che ogni patologia, anche la più organica, possiede sempre dei significati psicologici: è necessario, quindi, raccogliere la storia di una persona, di una famiglia, comprendere in che contesto è andata a cadere quella disabilità, quali ostacoli ha prodotto, quali risorse possono essere messe in movimento. E poi cè l’analisi del concetto di normalità, incastonato tra quell’essere “diversi”, e la “normalità” chiamata in causa e perseguita nei vari contesti di cura e riabilitazione.

 I diversi modi di “essere normali” possono andare profondamente in crisi quando si soffre, o continuare ad essere docilmente perseguiti come un miraggio: la ballerina che diventa paraplegica dopo un incidente può ridiscutere il proprio modello di femminilità, o lasciarsi andare, trascurandosi totalmente, perché lo avverte perduto e insostituibile o rimanerci disperatamente attaccata.

Può la disabilità, in qualche modo fare da “detonatore” rispetto ad una normalità male assimilata o da “silenziatore”, di funzionare cioè, come elemento che aumenta ulteriormente il conformismo? Ogni volta che con i ragazzi ci avventuriamo su questi percorsi di riflessione, inevitabilmente vengono fuori gli spaccati di vita personali, sociali, culturali, educativi, che portano a domande importanti, e. quasi spontaneamente si incominciano ad attivare quei percorsi di cambiamento di rotta, ove ci si rede conto di andare incontro a porti chiusi, nella navigazione del mare della “pedagogia inclusiva”. Perché il mondo più giusto coincide con il mondo in cui nessuno è escluso, un mondo in cui nessuno è lasciato indietro.

La normalità dell’imperfetto

“Molto tardi si impara che la debolezza non è un difetto, ma una qualità della persona. Una qualità rischiosa che non richiede indulgenza o severità ma riconoscenza.” Luigi Pintor

Ogni anno il corso di “Pedagogia inclusiva” (e da quest anno anche “Pedagogia generale” e “Pedagogia della famiglia”), della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi «Jurai Dobrilia» Pola (Croazia), inizia con questa citazione. Questa “massima” sull’importanza di accogliere le proprie fragilità, vuol tracciare la rotta, e in qualche maniera lascia presagire anche la meta da raggiungere di questo insegnamento.

Infatti il percorso di studi tocca i temi riguardanti le tappe (e soprattutto i nodi critici di queste tappe), del ciclo evolutivo dei bambini durante i primi anni di vita e durante tempo della scuola primaria; si vuole inoltre riflettere su come la scuola e tutto il mondo educativo siano chiamati ad accogliere tutte quelle situazioni che una volta si stigmatizzavano banalmente con: “è svogliato”; “è incapace”; “non è portato”.

Il percorso di studi approfondisce anche gli aspetti legati al mondo delle disabilità fisiche o psichiche che siano; e si considerano inoltre, i disturbi dell’attenzione e del comportamento dei bambini, che sono causa di apprensione per molte famiglie. Pertanto i futuri educatori necessitano sempre di più di una sorta di mappa di orientamento per poter essere accanto ai bambini e alle loro famiglie.

Chiaramente siamo consapevoli che un docente, o un educatore non può essere totalmente responsabile di tutto il lavoro di accompagnamento e di sostegno ai ragazzi e alle loro famiglie, pretendendo di risolvere ogni difficoltà: è sempre un gioco di squadra, un faticoso ma proficuo lavoro di rete con tutte le istituzioni: famiglia, sanità, scuola, istituzioni religiose…

Per tentare di raccontare qualcosa su questa tematica dobbiamo innanzitutto dire che la disabilità non esiste in termini puramente oggettivi, ma va sempre letta in quell’approccio che le scienze umane chiamano “multidimensionale”: chi è il disabile, quanti anni ha, in che tipo di famiglia e di società vive, in che luogo vive, quali sono le sue disponibilità economiche…queste sono le domande che l’approccio multidimensionale porta con sé, e a cui dobbiamo far fronte.

E’ diversa, ad esempio, l’integrazione di una persona disabile in un contesto rurale o in un contesto cittadino, è diversa la qualità della vita a seconda dei diversi significati che la cultura di riferimento dà alla condizione disabile, se la medicalizza, la santifica o la demonizza, è infine diversa l’esistenza secondo i mezzi economici e culturali che si hanno a disposizione. A partire dallo stesso grado di disabilità è possibile che si abbiano quindi gradi di handicap diversi.

Un altro aspetto, non secondario, nello studiare la disabilità nel suo aspetto soggettivo è che ogni patologia, anche la più organica, possiede sempre dei significati psicologici: è necessario, quindi, raccogliere la storia di una persona, di una famiglia, comprendere in che contesto è andata a cadere quella disabilità, quali ostacoli ha prodotto, quali risorse possono essere messe in movimento. E poi cè l’analisi del concetto di normalità, incastonato tra quell’essere “diversi”, e la “normalità” chiamata in causa e perseguita nei vari contesti di cura e riabilitazione.

 I diversi modi di “essere normali” possono andare profondamente in crisi quando si soffre, o continuare ad essere docilmente perseguiti come un miraggio: la ballerina che diventa paraplegica dopo un incidente può ridiscutere il proprio modello di femminilità, o lasciarsi andare, trascurandosi totalmente, perché lo avverte perduto e insostituibile o rimanerci disperatamente attaccata.

Può la disabilità, in qualche modo fare da “detonatore” rispetto ad una normalità male assimilata o da “silenziatore”, di funzionare cioè, come elemento che aumenta ulteriormente il conformismo? Ogni volta che con i ragazzi ci avventuriamo su questi percorsi di riflessione, inevitabilmente vengono fuori gli spaccati di vita personali, sociali, culturali, educativi, che portano a domande importanti, e. quasi spontaneamente si incominciano ad attivare quei percorsi di cambiamento di rotta, ove ci si rede conto di andare incontro a porti chiusi, nella navigazione del mare della “pedagogia inclusiva”. Perché il mondo più giusto coincide con il mondo in cui nessuno è escluso, un mondo in cui nessuno è lasciato indietro.

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