La Chiesa è un corpo vivo, in continua evoluzione, e le donne ne sono state l’anima pulsante da sempre. Fin dai tempi di Maria di Magdala, la prima testimone della resurrezione, le donne hanno giocato un ruolo fondamentale nella trasmissione della fede. Hanno costruito comunità, insegnato il Vangelo, curato i malati e assistito i poveri. Sono state missionarie coraggiose, teologhe illuminate, madri premurose e catechiste instancabili. Eppure, il loro contributo è stato troppo spesso messo in secondo piano, nascosto dietro le quinte della storia ufficiale della Chiesa.
Il Sinodo italiano ha evidenziato questa urgenza: mentre oltre la metà dei partecipanti ai percorsi sinodali locali erano donne, nella prima assemblea nazionale la loro presenza è scesa drasticamente, segno di una Chiesa che ancora fatica a rispecchiare la sua reale composizione. La domanda che si pone è inevitabile: come può una Chiesa essere pienamente fedele al Vangelo se continua a escludere o a relegare ai margini più della metà dei suoi membri? Se la Chiesa vuole davvero essere sinodale, non può limitarsi ad ascoltare le donne, ma deve includerle nei processi decisionali e nelle dinamiche di governo ecclesiale.
La sfida del riconoscimento: da figure marginali a protagoniste
Oggi più che mai, la sfida non è semplicemente “dare spazio” alle donne, ma riconoscere il loro ruolo con piena corresponsabilità. Non si tratta di concessioni o atti di benevolenza, ma di giustizia e coerenza evangelica. La teologa Teresa Forcades parla di un “ruolo centrale sorprendente” del corpo nel cristianesimo, un’idea che si scontra con secoli di dualismo tra anima e corpo, tra spirito e materia. Per secoli, la donna è stata considerata simbolo di tentazione o esclusivamente come madre accogliente, ignorando la sua intelligenza, la sua capacità teologica e la sua vocazione alla leadership.
Ma la storia della salvezza è costellata di donne che hanno infranto le convenzioni: da Maria, che con il suo “sì” ha cambiato il destino dell’umanità, a Giuditta e Debora, coraggiose guerriere bibliche; da Caterina da Siena, che ha parlato ai papi con un’autorità straordinaria, a Teresa d’Avila, che ha sfidato le rigidità ecclesiastiche per riformare il Carmelo. Se guardiamo ai Vangeli, ci accorgiamo che Gesù ha sempre avuto un rapporto libero e rispettoso con le donne, riconoscendo la loro dignità e ascoltando le loro parole. È stato lui a dialogare con la Samaritana al pozzo, a guarire l’emorroissa senza chiedere nulla in cambio, a difendere l’adultera dalla lapidazione. È stato sempre lui a mostrarsi per primo alle donne dopo la resurrezione, affidando loro l’annuncio più straordinario della storia. Se Gesù non ha avuto paura di affidare alle donne una missione di primo piano, perché la Chiesa continua a relegarle a ruoli secondari?
La questione della parola e dell’autorità ecclesiale
Eppure, oggi le donne si trovano ancora a dover lottare per vedere riconosciuto il loro diritto alla parola e alla piena partecipazione alla vita della Chiesa. Se è vero che negli ultimi anni molte di loro sono state chiamate a ruoli di governo nei dicasteri vaticani, è altrettanto vero che resta loro precluso il diritto di proclamare il Vangelo e predicare l’omelia durante la Messa. Il Sinodo sulla sinodalità ha portato alla luce questa incongruenza: se una donna può guidare un dicastero, perché non può predicare la Parola? Perché la sua voce è accolta nelle aule universitarie, nelle conferenze e nei convegni, ma non durante la celebrazione più importante della comunità cristiana?
La questione non è secondaria, perché riguarda l’autenticità stessa della Chiesa e il modo in cui essa vive il messaggio evangelico. Non si tratta di un semplice problema organizzativo o di una richiesta dettata dallo spirito del tempo, ma di una questione teologica profonda. Se la Chiesa riconosce che il battesimo dona a tutti i fedeli, uomini e donne, pari dignità e responsabilità, allora perché alcune funzioni restano ancora precluse in base al genere? La resistenza al cambiamento non può essere giustificata con argomentazioni deboli o con un attaccamento alla tradizione che, in realtà, è frutto più di costruzioni culturali che di autentiche motivazioni teologiche.
Il corpo della donna tra mistica e realtà
Un altro aspetto cruciale è il modo in cui il corpo della donna è stato percepito e trattato nella storia della Chiesa. Per secoli, il corpo femminile è stato visto come veicolo di concupiscenza e peccato, un’idea che ha condizionato profondamente il ruolo della donna nella Chiesa e nella società. Ma il cristianesimo è l’unica religione che ha Dio stesso fatto carne! Il corpo non è un ostacolo, ma il mezzo con cui viviamo l’amore, la relazione e la comunione. È tempo di superare la paura del femminile e di riconoscerne il valore mistico e teologico.
La teologa Cettina Militello ricorda che il Cantico dei Cantici è uno dei testi più intensi della Bibbia e celebra la bellezza e la forza dell’amore umano. Eppure, nel corso della storia, si è cercato di relegare il tema dell’amore e della passione a un piano secondario, come se la dimensione affettiva fosse qualcosa da temere piuttosto che da valorizzare. Il risultato è stato un’esclusione sistematica della donna da molti ambiti della vita ecclesiale, fondata più su pregiudizi culturali che su un’autentica riflessione biblica e teologica.
Verso una Chiesa più giusta e profetica
Papa Francesco ha aperto strade, ma il cammino è ancora lungo. Le sue parole sulla necessità di una maggiore presenza femminile nella Chiesa hanno smosso molte resistenze, ma è necessario tradurle in scelte concrete. Non basta dire che le donne sono importanti; bisogna creare spazi reali in cui possano esprimere il loro carisma, contribuire alla riflessione teologica, esercitare la leadership pastorale. Non si tratta solo di una questione di giustizia, ma di fedeltà al Vangelo.
Il contributo delle donne non è una minaccia, ma un dono necessario per una Chiesa più sinodale, più evangelica, più autentica. E se vogliamo una Chiesa capace di parlare al mondo di oggi, dobbiamo imparare ad ascoltare le donne. Non come eccezioni, non come ospiti graditi, ma come parti vive e indispensabili di quel Corpo di Cristo in cui, davvero, “non c’è più né uomo né donna, perché tutti siamo uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).